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Esencia

Quietos por inercia

Dar un paso es reunir el tiempo y el espacio. Frenar es disociarlos. El sedentario divide, el nómade fusiona, el vagamundo crea un puente, una distancia que une y que separa.

Moverse o aquietarse…

Lo normal se hace anormal y lo anormal anómalo. ¿Cómo dejar el naufragio de enraizar? ¿De enraizar en la necesidad?

Nos movíamos para comer, nos frenamos para cultivar lo que comíamos y hoy… ¿Quién cultiva lo que come? ¿Cuántos? Si no cultivamos lo que comemos, ¿Por qué seguimos quietos? ¿Cuándo dejamos de cultivar alimentos para cultivar ese intermediario o intermedio que es el dinero? Así y ahora, quietos por inercia, cultivando un medio o un abismo en medio, que va alejando ciertas bocas de ciertos alimentos, como si hubiéramos dejado de saciar el hambre para sembrarlo. En fin, nómades sedentarios, ejerciendo el péndulo de moverse o aquietarse solo para saciar algún tipo de hambre… ¿Hambre… De qué? ¿Qué haremos cuando estemos llenos? ¿Llenos… de qué?

Moverse o aquietarse a espaldas del hambre siempre fue un intento por ocuparse de la saciedad, y eso, quizás, un estar ocupados por la necesidad. A veces, hay tanto avance en el frenar… que no es estar quieto. Quedarse quieto fronterizó al mundo, quizás incluso fue la antesala de privatizarlo, de privarlo, de privarnos… El mundo de los fluidos pasó a ser el de los estancos.

¿Cómo hacernos nómades del tiempo… en un mundo de espacios segmentados? ¿Quizás, vagamundeando? ¿Acaso vagar es una forma de desprivatizarnos?

Vagamundear es “andar errante”… ¿Qué es errar?. Vagus, también refiera a vacuo, estar vacuo, vacante, des-ocupado. ¿Cuál es la errancia de estar vacuo? ¿No es acaso del vacío desde donde surge el espacio?

¿Cómo desocupamos la piel?

¿Cómo desvestimos la lengua?

¿Por dónde drena el alma? ¿Por la voz? ¿Por la palabra? ¿Por la mirada?

Existe un recinto casi infinito donde la voz puede finalmente ser mirada: el libro… Allí, entre sueños y recuerdos, los vagamundos entretejen el territorio del tiempo.

Essenza

Immobile per inerzia

Fare un passo implica unire il tempo con lo spazio. Fermarsi porta a dissociarli. Il sedentario li divide, il nomade li fonde insieme, il vagabondo crea un ponte, una distanza che unisce e separa.

Tra muoversi e restare fermi…

La normalità diventa anormale e l’anormalità diventa anomalia. Come fermare il naufragio del radicamento? Del radicamento nel bisogno?

Prima, avevamo bisogno di essere costantemente in movimiento per mangiare. Poi ci siamo fermati per coltivare ciò che mangiavamo, e oggi; chi coltiva quello che mangia?  Quanti coltivano ciò che mangiano? Se non coltiviamo ciò che mangiamo, perchè siamo fermi? Quando abbiamo smesso di coltivare cibo per coltivare quell’ intermediario o intermedio che è il denaro? Ihc et nunc: immobile per inercia, ci dedichiamo solo a coltivare un intermedio (il denaro) che non sempre riesce a mediare, anzi, molte volte, invece di unire, tende ad allontanare alcune bocche da alcuni cibi, come se avessimo smesso di soddisfare la fame per seminarla. Dopotutto, la miscela paradossale dell’essere nomadi sedentari, nell’esercizio del pendolo tra l’essere fermi e l’essere in movimento, solo per soddisfarne alcuni tipi di fame. Affamati… Ma pieno di che cosa?. Cosa faremo quando saremo pieni? Pieno di che cosa?

Muoversi o calmarsi con la fame alle spalle è stato sempre un tentativo di affrontare la sazietà, e quello, forse, era l´essere occupato dalla necessità. A volte, c’è così tanto progresso nel fermarsi, che non è stare fermi. Solo a causa della nostra decisione di rimanere immobili il mondo si è riempito di frontiere, e forse questo è stato il preludio alla sua privatizzazione, il prologo alla nostra privazione. Il mondo dei fluidi è diventato quello dell’ immobilismo.

Come possiamo diventare nomadi del tempo in un mondo di spazi segmentati? Forse, vagando? Potrebbe essere, il vagabondare, un modo per dare inizio alla nostra deprivatizzazione, un modo per sfumare i confini?

Il vagabondaggio si riferisce al vivere senza una destinazione fissa, così anche allude a “vacuo”, vuoto, vacante, immerso nella non-occupazione. Qual è il vagabondare de essere vacuo? Non è forse dal vuoto dove emerge lo spazio?

Proprio da lì, dal vuoto, è dove lo spazio può riemergere, dove il tempo può liberarsi. Forse lì, proprio nel mezzo di quella dissociazione, di fronte al vuoto e spinti dal tempo libero, troviamo le due forme più limpide di specchio dove possiamo spogliarci della pelle del nostro sguardo e vedere noi stessi.

Come possiamo liberarci dalla pelle del passato? Come spogliamo la lingua? Da dove drena l’anima? Atraverso la voce, la parola, lo sguardo?

C’è uno spazio quasi infinito dove finalmente la voce può essere osservata: il libro. Lì, tra sogni e ricordi, i vagabondi tessono il territorio del tempo.